Sto qui

Qualche ora ancora e l’ennesimo anno sarà giunto alla sua fine.
Da quando ero adolescente mi piaceva approfittare delle ultime ore dell’ultimo giorno dell’anno per fare bilanci. Chissà poi perchè mi piaceva? Mi compiacevo a ripercorrere i bei momenti dell’anno che stava finendo, mi divertivo a immaginare le belle cose che avrei fatto in quello che stava iniziando.
È invece da qualche tempo che non mi piace più fermarmi a fare bilanci della mia vita, o meglio, non ne ho più voglia perchè ne sono spaventato.
Provo fastidio perchè l’atmosfera di questi giorni induce a riflettere, a valutare il tempo trascorso, a pianificare il tempo a venire. Queste cose mi infastidiscono poiché mi sento in stato di permanente sospensione, in attesa di qualcosa che neanche io so, rifiutando un passato che non mi piace.
Non so cosa desiderare per l’anno che viene, non ho nulla di buono da ricordare dell’anno trascorso.
Sto qui e aspetto la mezzanotte.

Buon Natale

Rilassato in poltrona, davanti al camino, godo le ore di questa giornata come se gustassi un bicchiere di buon rhum.
La piacevole attesa che c’era una volta per l’inizio della festa non c’è più. Ma alcuni punti, dei capisaldi, della mia vita, della nostra vita anzi, sono immutati nel tempo, forgiati col fuoco della gioia e del dolore.
Per questo motivo sono qui e aspetto. Non so cosa, ma aspetto, e penso. Penso a lui, a me, a noi.
Penso ai Natali trascorsi a Pavia e penso ai tanti amici di Pavia che con il loro affetto e la loro generosità hanno lasciato un segno indelebile nella nostra vita.Penso anche all’ospedale di Pavia, non ne posso fare a meno, con tutti i medici le infermiere, e l’aria che si respira lì a Natale.
BUON NATALE A TUTTI

Emozionato

Non dovrei essere emozionato, ma lo sono. O meglio sono anche emozionato, oltre a essere incazzato, deluso, demoralizzato, disincantato, amareggiato.
Sono emozionato perchè tra sette giorni Mauro compirà quindici anni. Sì, un altro dei momenti importanti della sua non-vita.
A quindici anni si diventa giovanotti, si guardano le ragazze, si perde la timidezza caratteristica della prima adolescenza, si ci avvicina al mondo degli uomini.
Sono emozionato per i suoi quindici anni. È già da qualche anno che non festaggiamo il compleanno come eravamo abituati a fare. Adesso festeggia da solo. È finito il tempo in cui si stava tutti insieme al Verdemare, in quel bellissimo frastuono di voci e di schiamazzi. L’ultima festa risale al 2008, ben quattro anni fa.
Ancora oggi non so come feci ad arrivare alla fine di quella giornata. Mauro era uno spettro, magrissimo e dal colore indescrivibile. Sorrideva, contento di vedere, dopo quello aveva dovuto subire negli ultimi mesi, gli amici attorno a sé, tanti, forse tutti. Belli, floridi sorridenti, contenti. Lui invece era reduce dal suo quarto, e penultimo, intervento del primo dicembre. L’ennesima aggressione del tumore era stata estirpata, ma questa volta non era stato come le precedenti, c’era una novità: ci era stato comunicato che non se ne sarebbe più andato (il tumore) anzi, sarebbe ritornato moltiplicandosi a dismisura fino a fagocitare tutto il suo addome e Mauro stesso.
Quel giorno lo guardavo in mezzo agli altri e subivo una tremenda lacerazione: gioivo nel vederlo, vivo e felice, ma letteralmente morivo dentro di me sapendo quello che ci attendeva, sapendo che quello sarebbe stato l’ultimo compleanno.
Il solo fatto di poterlo guardare, nonostante il suo aspetto terrificante, mi riempiva di gioia, di tenerezza, di calore al contempo non vedevo l’ora che quelle ore passassero. La tristezza che avevo dentro era così forte da annebbiarmi la vista, da rendermi folle dal dolore.
C’era in quella festa anche un mago. Un simpatico mago che avevamo già incontrato nella allegra e divertente festa della comunione di Mauro e di altri amici, poco più di un anno prima. Il mago fece il suo spettacolino. Mauro ricordava spesso di quanto era stata divertente la festa col mago e quindi la sorpresa di vederlo alla sua festa lo rese felicissimo.
E così tra qualche giorno compirà quindici anni, di cui solo poco più di un terzo veramente felici. Per la restante parte ha dovuto imparare a fare i conti con la vita, gli ospedali, la sofferenza, la morte (dei suoi piccoli amici-colleghi pazienti), e con una serie infinita di sacrifici.
Eppure sono emozionato per l’arrivo del suo compleanno. Un compleanno importante: quello dei quindici anni.

Buona domenica

C’era un tempo in cui quando facevo la doccia dovevo ricordare di non lasciare l’erogatore in alto.
C’era un tempo in cui ogni volta che passavo da un aeroporto mi dedicavo a scegliere un regalino per fargli sapere che l’avevo pensato.
C’era un tempo in cui, prima di spegnere la luce ogni sera, mi accertavo che dormisse sereno.
C’era un tempo in cui passavo tutto il tempo libero a giocare, con lui.
C’era un tempo in cui ogni mattina, prima di andare al lavoro, lo accompagnavo a scuola.
C’è stato un tempo in cui ogni settimana dovevo rifargli la medicazione al catatere venoso centrale.
C’è stato un tempo in cui ogni giorno dovevo preparargli la sacca dell’alimentazione parentelare aggiungendo potassio.
C’è stato un tempo in cui ogni notte, in cui non riusciva a dormire per i dolori, ci facevamo compagnia sul divano a fiori.
Qualsiasi tempo che è stato era migliore di quello che c’è adesso in cui non posso occuparmi di lui.

Buona domenica di pioggia.

Nadal

Mi è caduto distrattamente lo sguardo sulla data che appare nell’angolo in alto a destra del  mio schermo. È così che ho appreso che tra trenta giorni sarà Natale. Il periodo natalizio è sempre un bel periodo. È un momento in cui si può approfittare per riposarsi, per fare dei bilanci, per dedicarsi alla famiglia.
A me ultimamente il Natale fa girare fortemente le palle, ma questo non c’entra. C’entra invece il fatto che aver realizzato dell’imminente arrivo del Natale ha contribuito ad aumentare la tristezza che mi pervade da qualche giorno. Analizzando le cose: non c’è un motivo singolo e preciso che provoca questo stato ma un insieme di fatti e pensieri che periodicamente si sincronizzano e mi spingono a profonde riflessioni.
La prima di queste è che non so con chi prendermela. Sì, proprio così. Vorrei tanto potermi scagliare contro qualcuno o qualcosa su cui riversare la mia rabbia e farla, anche se momentaneamente, sbollire. Invece non ho nessuno verso cui rivolgere il mio disappunto e di conseguenza, per una non ben conosciuta proprietà riflessiva, me la prendo con me stesso.
Un’altra riflessione, che periodicamente ricorre nei miei pensieri, è che sono stanco. Ovviamente non si tratta di una stanchezza fisica, che sarebbe facilmente rimediabile con un po’ di riposo. Si tratta invece di una stanchezza che, forse presuntuosamente, potrei definire mentale o psicologica. La mia osservazione deriva dalla consapevolezza di correre, correre, correre; ovviamente sempre con la testa. È dal cinque settembre che corro, senza mai fermarmi. Corro sempre appresso a qualcosa, non sempre la stessa. Corro senza sosta perché la sosta è più deleteria della stanchezza e quindi continuo a correre.
Poi giungono momenti, come quelli che vivo negli ultimi giorni, in cui la stanchezza pervade tutti i distretti della mia vita e diventa insopportabile. Quando accade me ne accorgo dal fatto che desidero fermarmi, desidero riposare, prendere fiato. Ma questo non è possibile perché mi succede come a un aeroplano quando è in volo: se si ferma cade in picchiata. Quindi devo continuare a correre o forse dovrei dire a rincorrere. Rincorrere qualcosa, oggi una cosa, domani un’altra, dopodomani un’altra ancora. L’importante è andare forte in modo da impegnare il pensiero al cento per cento delle sue possibilità.
Domani mi aspetta un’altra giornata difficile alla quale seguiranno giorni difficili. Ecco, questo è il Natale che mi aspetta, poi la Pasqua, l’estate eccetera.
E infince c’è la sua assenza che diventa sempre più pesante e che mi spinge a chiedermi: “Ma dove sto andando senza di lui? Dov’è che voglio arrivare?”

Ricerca

Insegui ciò che ami, o finirai per amare ciò che trovi” – Collodi.

Ecco questa è una sintesi di quello che penso. Perché accontenarsi di vivere nella gabbia che ci viene costruita intorno, su misura, dagli eventi e, a volte, dagli altri.
Meglio far volare la mente, che saprà trascinare con sé anche il cuore, anziché lasciare che il quotidiano avvolga mente e cuore con un melassa appiccicosa di assuefazione.
Parto alla ricerca di ciò che amo dunque.

Un raggio di sole tra le nubi

In controtenza con il clima piovoso, oggi un raggio di sole ha penetrato la spessa coltre di nubi che mi avvolge minacciosa da anni. Ho letto per caso un articolo di un blog che mi ha ridato energia. La gioia espressa attraverso le belle parole è stata, anche se solo momentaneamente, contagiosa.
Non nascondo, non potrei, un pizzico di invidia, ma la vita, quando vuole, sa essere così bella che nessuna invidia può guastarla.
Oggi viaggio con te, amico, nel lontano oriente, dove una nuova bella storia sta nascendo: in bocca al lupo.

Un’idea

Domenica, novembre. Un giorno come gli altri, un giorno in cui la tua mancanza non viene diluita dalle distrazioni del lavoro.Come accade solitamente alle ferite, quelle grandi soprattutto, se rimangono aperte per troppo tempo producono dolorose infezioni la cui cura diventa quasi impossibile.
Stamattina sono più arrabbiato del solito. È difficile dire con chi sono arrabbiato. Con chi me la devo prendere? Con la sorte? Oppure con i medici? O con me stesso? Forse con tutti, o con nessuno. Tanto non cambia nulla.
Questa mattina però sono arrabbiato anche con te, è bene che tu lo sappia. Al di là di tutte le giuste motivazioni resta un fatto: mi hai abbandonato. Non c’è dubbio che ti abbia perdonato, ma concedimi almeno di essere arrabbiato. Non si  fa così, non si entra nella vita di una persona fino a occuparne anche l’ultimo neurone e poi si abbandona a se stesso. Il solo pensiero mi fa … non so descrivere che effetto mi fa, ma non è sopportabile. È inumano!
A volte mi farebbe piacere poter annullare la mia memoria degli ultimi quindici anni, ma non sono certo di volerlo davvero. Dovrei rinuciare a tantissime cose belle che ho vissuto insieme a te. Ti ricordi quelle mattine trascorse in Villa Comunale quando ti insegnai ad andare in bici? Che gioia che provasti quando finalmente riusciti a fare a meno delle rotelle. Non ti ho mai detto di quanto fosse intensa la mia felicità, non credo che tu te ne sia accorto. Ecco, se dovessi descrivere cosa è la felicità potrei raccontare di quel giorno, oppure di quell’alba che trascorremmo, io e te soli, su una spiaggia in Messico a guardare un pellicano appollaiato su un palo. Ce ne sono tanti di momenti come questi che abbiamo vissuto insieme, ma non ho fatto in tempo a ringraziarti di questi tanti attimi di felicità che mi ha regalato.
Oggi invece sono qui a fare i conti con la tua assenza: e non dovrei essere arrabbiato?
Mi guardo attorno nel mio piccolo rifugio e vedo oggetti che non valgono nulla: una gomma per cancellare, una vecchia scheda di memoria di un gioco elettronico, un pupazzetto di Paperinik, e mi rendo conto che sono sopravvissuti a te. Questi oggetti, e tanti altri ancora, sarebbero dovuti finire nell’immondizia prima ancora che tu andassi al primo liceo e invece sono qui davanti a me, e tu no. Non ci sei.
Passerà. Presto passerà l’arrabbiatura che provo verso di te. Non riesco a trattenerla a lungo: ti amo troppo. Amo troppo quello che sei stato. Ma odio quello che sei: un’idea, solo un’idea nello spazio confinato del mio cervello. Un’idea impalpabile, senza profumo, senza voce, senza corpo. Un’idea che morirà con me e che non sopravviverà ai miei stupidi neuroni.
Vaffanculo mondo.

Il Monumento

Ieri mi trovavo per lavoro dalle parti di Piazza della Vittoria, “al Monumento” per i sorrentini doc, così, invitato dal sole autunnale che splendeva in un cielo terso, mi sono affacciato alla balconata che da sul mare.
Il solito, ma sempre bello, panorama si è aperto alla mia vista: Il Vesuvio sullo sfondo e un mare di un colore azzurro come il cielo, con una barchetta di pescatore che sembrava far parte di una cartolina.
Poi la  mia attenzione è caduta su uno specchio di mare, proprio sotto la terrazza, un triangolo irregolare di circa 1500 metri quadrati di superficie. In questo pezzettino di mare, delimitato da una scogliera, un terrazza su palafitte e una spiaggetta, non c’era nessuno: siamo in autunno inoltrato, solo qualche gabbiano volteggiava curiosando sulla scogliera.
Questa volta si è aperto un altro tipo di scenario. Quasi come in un film in cui parte un flashback, ho iniziato a vedere delle persone sulla terrazza, altre a mare e altre ancora sulla scogliera, attrezzata con sedie a sdraio e lettini.
Proprio come in un film l’immagine ha zoomato su un uomo sulla quarantina che, stando sulla riva, immergeva un bambino piccolo, molto piccolo, nell’acqua del mare. Il bimbo sembrava gradire ed entrambi erano intenti a giocare con l’acqua.

Nella successiva inquadratura sulla terrazza c’è un piscina gonfiabile e dentro lo stesso bambino, ma un po’ più grande. Il piccolo, protetto dal sole da un cappellino colorato, si diverte con dei giochini, sorride. Attorno a lui alcune persone chiacchierano felici. La pellicola scorre veloce, adesso il bambino corre con degli amichetti in lungo e in largo per tutta la spiaggia, fa il bagno da solo nuota senza braccioli e gioca con un materassino. È forte e robusto, si vede che è anche felice. Il padre lo guarda soddisfatto dall’alto della balaustra.

Ancora un cambio di scena. Il bambino è ancora più grande, con i suoi amichetti sta su un canotto e fa la spola con lo stabilimento balneare contiguo dove ci sono i compagni di scuola. Fanno tuffi, si schizzano l’acqua, si rincorrono.
Nella immagine seguente è quasi un ragazzo, rubicondo, anche un po’ paffuto: sta all’esterno della balaustra di legno e sta per tuffarsi. Ha imparato a fare i tuffi di testa e fa lo spavaldo con il gruppo dei suoi coetanei.

Cos’è successo? Nella inquadratura seguente non c’è più. L’immagine scorre su tutto lo specchio d’acqua ma il bambino non c’è.
Neanche i suoi genitori.

Bisogna attendere altre lunghe sequenze per ritrovarlo. È il 2008, mese di settembre: é irriconoscibile! È un ragazzo adesso, non ha più i tratti da bambino, è più alto ma è magrissimo, da fare quasi impressione. Sta seduto al tavolino del bar, il suo colorito è pallido, molto pallido: è evidente che non ha preso sole durante l’estate. Il suo viso è triste, è dispiaciuto, sta cercando di mangiare una insalata di pomodori ma non ci riesce.
L’uomo, molto più invecchiato, è seduto al tavolo con lui e lo guarda con amore. Sembrano due persone diverse da quelle della prima parte del film, come se fossero cambiati gli attori.
Il film che mi è apparso come una visione sta finendo. Si chiude con i due che si avviano verso l’uscita dello stabilimento balneare e prima di lasciarlo si voltano indietro malinconici per un ultima volta.

È ora. L’appuntamento di lavoro mi aspetta. Lo specchio d’acqua a cui rivolgo un ultimo sguardo malinconico è ancora lì. La scogliera e la terrazza sono vuote come le avevo trovate accostandomi alla balaustra di Piazza della Vittoria.

Un giorno normale nel DH

Si potevano osservare – e forse è possibile farlo anche oggi – un ampio ventaglio di comportamenti tra tutti i gruppi familiari che frequentavano il Day Hospital di Oncoematologia Pediatrica. Come tanti altri, io stesso ho partecipato all’arricchimento di queste tipologie, quindi penso di conoscerne abbastanza bene tutte le caratteristiche.
Il più numeroso dei gruppi era quello che includeva i bambini – e relativi genitori – che erano lì per DH programmato per controllo e terapie che necessitavano nel decorso della malattia nella fase successiva alla sommnistrazione di chemioterapici. Non era difficile riconoscerli: il pallore (per essere generosi altrimenti potrei dire il colore indefinito tra il giallo, il verde chiaro e il grigio) della pelle del viso dei bambini era il primo segno distintivo. Spesso a questo aspetto si accompagnava la presenza di un cappello (vedi Mauro) o di una sorta di fazzoletto/bandana (per le bambine) che dovevano servire per nascondere la parte superiore della testa – dove avrebbero dovuto fare bella vista di se i capelli – e dove invece, se si era fortunati, c’era un cranio perfettamente pulito e lucido, altrimenti si poteva trovare una ridicola lanetta costituita da capelli dispettosi che non avevano voluto cedere alla chemio.
Nella quasi totalità di questi casi il viso dei genitori, forse per una sorta di desiderio di condivisione, assumeva una tonalità di colore tendente a quella del proprio figlio. Facevano eccezione i genitori dei bambini che erano giunti in quel girone infernale da pochi giorni – ed erano quindi solo alla prima chemio. Il loro viso conservava ancora il colore della normalità. quello della vita “fuori”, ma inevitabilmente venivano traditi dallo sguardo: nei loro occhi si poteva leggere con chiarezza l’incredulità di essere capitati in quel posto. Questa tipoligia di frequentatori se ne stava a sedere disciplinata in rassegnata attesa delle “chiamate”, che si concretizzavano attraverso la voce gracchiante di un altoparlante. Il nome del piccolo paziente veniva infatti estratto dall’elenco formato man mano che si arrivava in DH. Appena giunti lì si doveva scrivere il nome del proprio figlio in coda alla lista, e in ordine, cronologico ma non proprio, il piccolo veniva chiamato. Le attività che venivano svolte nel DH, per cui i bambini venivano convocati tramite l’altoparlante, erano più o meno sempre le stesse. Si iniziava generalmente con il prelievo. Al prelievo erano sottoposti praticamente tutti. Chiunque passava dal DH doveva lasciare, in uno dei tre ambulatori, una decina o più di cc (centimetro cubo equivalente al millilitro, unità di misura dei liquidi nel campo medico) di sangue affinché fosse esaminato per il dosaggio dei globuli bianchi, dell’emoglobina e di tanti altri parametri. La quasi totalità dei bambini era munito di CVC (catetere venoso centrale) attraverso il quale, in modo indolore, veniva prelevato il sangue necessario per gli esami ematici. Dopo il prelievo si ritornava in sala d’attesa. Per i fortunati che erano riusciti ad accaparrarsi un posto a sedere si poteva magari continuare a leggere un libro o a giocare col telefonino, per tutti gli altri si ci poteva sempre appoggiare a un muro.
Dopo il prelievo seguiva la “visita”. Questa veniva fatta in una delle quattro o cinque stanzette. Queste erano delle vere e proprie camere d’ospedale, con tanto di letti, televisioni, prese a muro per ossigeno, eccetera e venivano adoperate per diverse funzioni. Al mattino servivano ai medici del DH per visitare i piccoli. Venivano auscultate le spalle, venivano palpati i siti di alcuni linfonodi, misurata la pressione e sempre veniva fatto il controllo della maledettissima “mucosite“, quella quale mi riservo di parlare in un’altra occasione.
Generalmente per le 10.30 del mattino o poco dopo le visite erano terminate,  iniziava allora la lunga attesa del verdetto delle analisi, che raramente arrivava prima delle 12. Dall’esito delle analisi dipendeva se c’era da fare delle terepie aggiuntive. I “liquidi” per chi non mangiava tanto, una sacca di sangue per chi aveva una forte anemia, una sacca di piastrine per chi era piastrinopenico, antibiotici dai nomi improbabili per chi aveva i globuli bianchi bassi o inesistenti: ce n’era un po’ per tutti. Si potevano poi somministrare, a seconda del caso, antifungini, albumina, antivirali (il famoso “Zovirax” o “Aciclovir”), potassio e una variegata combinazione di tutti questi e altri ancora e perfino alcuni particolari tipi di chemioterapici che non necessitavano di ricovero al quarto piano.
Ritornano alle varie tipologie di persone che frequentavano il DH c’erano quelli che, essendo guariti (i loro figli ovviamente) tornavano a Pavia per il follow-up (controlli periodici post malattia), potremmo chiamarli “i sopravvissuti“.
Questi erano quasi sempre i più belli d’aspetto. Si poteva leggere sul loro viso la compassione verso i disgraziati che erano ancora nell’inferno ma anche il terrore che l’esito di qualche esame potessi farli ripiombare tra i derelitti. Evitavano di fare troppe domande alle persone che avevano conosciuto e che erano ancora lì: le risposte potevano essere terribili. Ma spesso, con un pizzico di crudeltà, venivano informati sugli ultimi decessi. In realtà “i sopravvissuti” erano lì nel DH ma non c’erano, almeno con la testa. Si sentivano, magari a giusta ragione, come chi visita un lazzaretto: tanta compassione, ma non vedevano l’ora di schizzare via come fulmini da quel posto infernale per far ritorno nel mondo normale che avevano conquistato con tanta sofferenza.
Quasi tutti “i sopravvissuti“, dopo le dimisssioni,  lasciavano in gran fretta quel posto con malcelato compiacimento. Solo gli sfortunati, come fummo anche noi, venivano costretti dalla “ricaduta” a trattenersi per il conseguente ricovero. Vederli ripiombare nella condizione di ammalati (sempre riferita ai loro figli, ma come si sa se si ammala un figlio si ammala anche il genitore) strappava letteralmente il cuore. Non trovo parole adeguate a descrivere il loro aspetto, la loro espressione. Pochi possono capire cosa si prova.
C’erano infine quelli che capitavano in DH per la prima volta. Incredulità, incredulità. Non si riesce a credrere che possano esistere posti come quello. Lo spettacolo che si presenta dinanzi a loro è terrificante. Bambini senza capelli dai visi terrei, smunti sceletrici; bambini con tubi di plastica che escono dal petto collegati a una o più sacche di sangue o di sostanze dai colori più disparati (dal giallo intenso al rosso rubino e anche nero); bambini su sedia a rotelle con la pelle di colore marrone scuro tutta costellata di piaghe, e tanti altri ancora. Per non parlare dello spettacolo fornito dai genitori: una galleria di volti che esprimono dolore, sofferenza e rassegnazione.
Il solo pensiero che il loro piccolo bambino possa diventare come uno di quelli che popolano quel girone dantesco li fa sbiancare; manca loro la forza di parlare. L’unica cosa che si può leggere sui loro volti, ancora assomiglianti a quelli del mondo esterno, è: “NON È POSSIBILE!!!”

Dopo aver sperimentato tutte queste categorie e atre ancora, per esempio quella del genitore a cui è stato appena comunicato che il proprio figlio morirà a breve, sono di nuovo qui, nel mondo normale, ma la mia mente non ha mai lasciato il DH dell’Oncoematologia pediatrica al quale sono legato da ricordi indelebili.

La sua partita

Aveva imparato da me all’età di circa cinque anni. Gli era piaciuto subito il gioco degli scacchi.
Poi siamo dovuti partire la prima volta per Pavia e, come tante altre cose, gli scacchi sono finiti nel dimenticatoio.
Al rientro a Sorrento abbiamo ripreso a giocare con una certa assiduità. Non so se considerarmi stupido o idealista ma, nelle partite che facevamo, mettevo impegno, come lui stesso faceva, solo che essendo più esperto riuscivo a vincere facilmente. Ero convinto che farlo vincere apposta, come si fa spesso con i bambini, non fosse un buon insegnamento. Ma forse, a pensarci bene, per me non era un bambino: era il mio amico Mauro. In ogni caso, ritenevo che giocare con lui senza concedergli vantaggi fosse uno sprone a farlo migliorare, a dargli mordente. Non so se oggi farei ancoralo stesso; me lo sono chiesto più volte ma non ho saputo darmi risposta.
E così siamo andati avanti per un bel po’: ad ogni partita vincevo io ma lui cresceva sempre di più.
Una volta ero di ritorno da un viaggio di lavoro che mi aveva tenuto lontano da casa per tre gioni. Arrivai la sera tardi, dopo le undici, e trovai Mauro che mi aspettava impaziente. Indossava il suo pigiamino celeste e aveva la scacchiera di legno già preparata per fare una partita.
Mi concesse giusto il tempo di mangiare un boccone e subito dopo mi costrinse a sedere sul divano, di fronte a lui, per giocare.
Sarà stata la stanchezza che mi toglieva lucidità, ma forse anche un po’ di distrazione, fatto sta che lui vinse!
Credo che nella sua breve vita poche volte l’ho visto così felice. Saltava per tutta la stanza sorridente e mi prendeva in giro. Sapeva – e sentiva – che non lo avevo fatto apposta e questo fatto lo inorgogliva enormemente. Per quella meritatissima vittoria mi prese in giro per più di una settimana.
Questa è la storia della “sua partita“.

Daria, Mauro e Francesca

Questa mattina mi sono svegiato contento perché nella notte ho fatto un’incursione in uno dei mondi paralleli.
Sono riuscito a vedere ciò che sta accadendo lì e me ne sono compiaciuto.
Mi sono visto mentre abbracciavo i miei tre figli: Daria, Mauro e Francesca.
Non li vedevo da un po’ di tempo ed ero così felice da stringerli fortissimo. Daria, la più grande, oramai una signorina, se ne stava più sulle sue, mentre Mauro, il secondo, e Francesca mi stavanno attaccati come ventose.
Eravamo tutti tanto felici perchè dopo un lungo periodo di apprensione dovuto alla malattia di Mauro finalmente stavamo di nuovo tutti insieme.
Ovviamente il più contento era Mauro. Non so se perché è l’unico maschietto dei tre o forse per altre ragioni più profonde, ma tra noi c’è un legame particolare che valica quello classico del rapporto padre-figlio. E’ come se ci conoscessimo da sempre, come se fossimo una cosa sola. Godiamo di una sintonia eccezionale che ci consente di intenderci senza parlarci, solo con lo sguardo. Ed è appunto con lo sguardo, senza parole, che mi stava trasferendo la sua gioia per essere finalmente guarito e di nuovo riunito alla sua famiglia.
Il suo viso, florido, rubicondo, mi confermava che il peggio era ormai alle spalle. Come stava bene in quel suo giubbotto di piume rosso fuoco.
Ma anche Francesca era sorridente. A dire il vero Francesca è sempre sorridente. Dei tre figli è quella che è sempre di buon umore; non fa mai capricci, ne crea problemi. Forse solo perchè è ancora piccola. Daria invece osserva i fratelli come se fosse la loro mamma. È protettiva ma sorride anche lei molto soddisfatta per la ritrovata unione familiare. Ha sofferto molto per la malattia di Mauro. Non è un tipo molto espansivo come i due piccoli e così, in tutto questo lungo periodo, ha tenuto tutto il suo dolore e la sua apprensione dentro di sé.
Ma ora è finita! Ci stiamo finalmente godendo la gioia di stare tutti insieme.

La mia visita imprevista al mondo parallelo si conclude con questa scena in cui tutti, noi genitori e i nostri tre piccoli, sorridiamo felici. Io ho tra le mie braccia Mauro e Francesca mentre Vera tiene le mani sulle spalle di Daria e ci guardano allegre.

Fine del viaggio. È domenica e sono di nuovo in un altro mondo parallelo – quello sbagliato però – dove figli non ne ho.

Un giorno normale

Ci siamo, anche quest’anno ha un cinque settembre, un giorno come tanti altri.
Appuntamento alle 9.30 con un architetto, alle 12.00 con un geometra, poi alle 17.00 con un cliente e alle 18.00 con un amministratore di condominio: un giorno come tutti gli altri.
Perchè dovrebbe essere diverso?
Forse solo perchè tre anni fa (dico tre!!) in questo giorno Mauro ha smesso di vivere?
Ma diciamolo – perchè è giusto che sia così – chi se ne frega più di Mauro? Una piccola meteora passata, senza soffermarsi troppo, nell’anagrafe sorrentina. E se  anche qualcuno se ne fregasse cosa potrebbe fare? Niente, proprio niente!
Anche io fingo di non ricordarmene. Peccato che piove, altrimenti sarei andato a mare nello spacco del lavoro.
Si! proprio un giorno come tutti gli altri. Sicuramente per me è così. Un giorno in cui la voragine lasciata da un ragazzo – o forse dovrei dire un uomo per come ha affrontato il suo destino – è talmente grande che neanche le tonnellate di cose con le quali cerco di riempire la mia vita riescono a coprirne il fondo.
E tutto ciò che mi rimane non è altro che qualche centinaio di grammi di fosfato di calcio, contenuto in un oscuro barattolo.
No! Forse mi rimane ancora qualcos’altro: il ricordo del momento della sua morte. Atteso per le 10 del mattino è arrivato solo alle 13.34.
Entrambi gli cingevamo il capo, disteso al suo posto nel lettone di Pavia. Lui guardava fisso davanti a se, non rispondeva alle nostre parole. Fuori dalla porta un piccola comunità di amici aspettava l’annuncio.
Poi ad un tratto …
Lo racconterò un’altra volta come è andata a finire, adesso mi attende una normale giornata di lavoro.

Sentiero

Le dita balzano tristi e svogliate da un tasto all’altro.
Potrei scrivere molte cose delle vacanze in montagna, forse la maggior parte già dette. Ma non sarà così.
Qualcuno, qualche giorno fa, mentre ci arrampicavamo su un sentiero scosceso, mi ha chiesto come andava, riferendosi all’assenza di Mauro.
Ho risposto di getto, senza pensarci troppo, che andava come il solito, come gli altri anni in cui non c’è stato.
Dopo ci ho riflettuto e ho capito che non era vero quello che avevo detto: la verità è che ogni anno la sua assenza si fa più pesante e più difficile la sopportazione. Voglio dire che la sua mancanza è sempre più forte, più sentita, più sofferta. Il mio sentiero è sempre più ripido.
Viceversa quella che va sempre bene è la capacità di dissimulare. Dev’essere per forza così, guai se non lo fosse.

Quotidianamente, sono avvolto nelle sue cose, nelle sue immagini e anche dalla sua assenza ma, quando sono lì sopra, sulle nostre Dolomiti, queste sensazioni, che nella confusione e nel frastuono sorrentino vengono diluite, assumono invece una dimensione così reale, così solida da farmi dubitare addirittura che lui sia morto.
Conferma ne è il fatto che sempre più spesso sogno che da una sola sua cellula sia possibile, con nuove e mirabili tecnologie, riportarlo in vita.
Alcuni giorni fa, sempre nel sogno, mi veniva detto che dalle sue ceneri non sarebbe stato possibile ricavare nuova vita per lui. Così mi era venuta l’idea di cercare nell’auto, nelle pieghe dei sedili, piuttosto che nei tappetini, delle cellule della sua pelle: tanto tutti sanno che l’auto non la lavo mai.
A proposito di auto, di tanto in tanto ritornano in vista nel portabagagli i legnetti che lui raccoglieva nel corso delle passeggiate in montagna, per poi intagliarli.
No! Non riesco proprio ad abituarmi.

Agosto, San Candido e il 5 settembre

Mancando pochi giorni alla fine di luglio i miei pensieri s’incupiscono. Si vede anche dall’esterno inutile nasconderlo!
Rimesto quasi ossessivamente nel bidone dei ricordi finchè, senza neanche troppa fatica, salgono a galla.
L’agosto 2009, San Candido, il 5 settembre.
E scusate se è poco!
L’incessante rombo di sottofondo della vita frenetica che mi scorre tutt’intorno non riesce a sopraffare le voci, le parole, gli odori, gli sguardi di un passato che non vorrei lasciare andare ma che invece affonda lentamente, ma inesorabilmente, nelle sabbie mobili dei ricordi.
Stamattina penso ai criceti e alla canottiera celeste (lo confesso questa canottiera mi angoscia davvero, ma non posso fare a meno di esserci affazionato).
A volte, stupidamente, mi chiedo come finirà tutto questo.
In fondo sono passati solo tre anni dalla morte di Mauro. Cazzo, tre anni!

Disequazioni

Questa notte ho sognato una serie interminabile di disequazioni di secondo grado. La maggior parte erano pure e spurie.
Almeno le spurie hanno sempre delle soluzioni; le pure e le complete possono anche non averne: tutto dipende dal discriminante!
C’è qualcosa di imperfetto nelle disequazioni e quelle di secondo grado non fanno eccezione. Per non parlare degli intervalli. Quelli aperti poi … col loro senso di infinito che in fondo è anche indefinito, dispersivo. Hai la soluzione ma non riesci a contenerla.
Mi infastidisce sognare disequazioni.

E’ un po’ di tempo che non vado tanto daccordo con i miei sogni; come se andassimo su due binari diversi. Forse c’è qualcosa che cerco di dirmi, ma non trovo i sogni (le parole) adatti e quindi non capisco.

Finalmente ce l’ho fatta

Finalmente ce l’ho fatta. Sono riuscito a fermarmi per poter scrivere ancora.
Ho perso il conto dei giorni che sono trascorsi dallultima volta. Dopo avermi accompagnato per tre anni improvvisamente ho provato difficoltà a rivolgermi al mio caro, vecchio blog cui sono tanto affeizonato.  Cosa è accaduto per provocare questo momento di distacco non lo so. Ovvero sono accaduto molte cose, lo so. Oramai non ci faccio più caso; le “cose” si susseguono con una tale velocità ma non ci faccio più caso. Come se gli eventi “eccezionali” facciano invece parte di una normalità, che nella realtà tale non è.
Dopo tanti anni comincio a chiedermi se una vita normale mi sarebbe mai piaciuta, ma non mi è stata data la possibilità di scegliere quindi va bene così.
L’assenza prolungata non è stata causata da una distrazione da quello che da tre anni è il filo portante della mia vita. Semmai proprio il contrario. Una concentrazione così forte, fatta di ricordi, di profumi, di colori, di carezze che appaiono e scompaiono, si fondono e si dilatano.
Ecco, questo è il motivo: immersione troppo profonda nel mio mare intimo per poterne riferire con parole, per quanto significative, ma pur sempre solo parole.
Cosa è cambiato oggi? Non lo so, così come non so tante altre cose. So solo che sento il bisogno di riposare e lo posso fare solo qui, depositando parte dei miei pensieri, troppo pesanti, in questro scrigno di vetro.

Magic Moments

Capita nel corso della propria esistenza di vivere dei momenti magici. Il più delle volte arrivano inaspettati e senza annunciarsi; travolgono come una marea senza dare neanche il tempo di rendersi conto. Si ci trova immersi in questa nuova condizione della quale si prende coscienza lentamente. Si rimane piacevolmente frastornati per un tempo più o meno lungo. Si passa dallo stupore iniziale alla, alla contentenzza, dalla paura che tutto finisca e sia solo un sogno alla gioia più profonda.
In genere non durano molto, sono proprio dei momenti; giusto il tempo che si possa realizzare quello che sta accadendo e poi scompaiono, si rifugiano di nuovo nel luogo magico e segreto dal quale sono venuti.
Per alcuni i momenti magici non arrivano mai, capita! Per altri invece succede almeno una volta nella vita, ed è bellissimo! Per altri ancora i momenti magici quasi si sprecano.
A chi è capitato di vivere uno di questi particolari momenti rimane un ricordo così piacevole, dolce, esaltante che ne vorrebbe ancora. Ma, se sono “momenti magici”, è proprio perchè di magico hanno il fatto che vengono da soli e non è possibile ottenerli con la propria volontà e le proprie azioni; se arrivano lo fanno quando vogliono e non c’è verso di cambiare il corso delle cose.
Capita a volte, nel corso della propria esistenza, di sentire un gran bisogno che giunga un momento magico, ed è proprio quando si sente questa necessità che, come  folletto dispettoso, il momento magico si nega. Anche quando sembra che vi siano tutte le condizioni propizie, quando si è lavorato tanto affinchè esso possa giungere, quando tutte le probabilità sono a favore della sua concretizzazione, niente: il “Momento Magico” si guarda bene dal farsi trovare.
Si può trascorrere una vita intera in attesa di un momento magico senza che questo giunga mai. La cosa importante è non smettere di sperare.

Zio Tranquillo e il piano terra

Quando viene a mancare una persona cara, una di quelle che quando sei nato era lì, che è sempre stata presente per tutti gli anni della tua vita (e non sono pochi) e con la quale hai tessuto una densa rete di affetti, ebbene non puoi fare a meno di fare una serie di riflessioni.
La consapevolezza di non potergli più parlare, di non poterlo più abbracciare, di non sentire più la sua voce infonde un senso di sgomento: ti viene da dire “non è possibile!”.
La razionalità però prende il sopravvento e ti costringe ad accettare la sua assenza come una naturale conseguenza della vita stessa. Una vita, fortunatamente lunga, vissuta con il sacrosanto piacere di fare le cose nel modo e nel tempo desiderato. Una vita condivisa con una persona altrettanto bella, che ha visto aggiungere alla famiglia figli, nipoti e pronipoti. Io non avrei potuto desiderare di più.
Nonostante queste logiche osservazioni non riesco a scrollarmi di dosso quella dolorosa sensazione che sia venuta a mancare una parte delle mie fondamenta. Più ci penso e più vedo che piano piano stanno venendo a mancare i pilastri che hanno costituito le basi della mia vita affettiva dall’infanzia in poi. Sarà naturale, biologicamente corretto, e anche risaputo ma non riesco a non rattristarmi.
Il palazzo della mia vita perde le sue fondamenta pezzo dopo pezzo. Gli affetti si tramutano in ricordi che, per quanto piacevoli, rimangono pur sempre eterei.
Però la mia tristezza non finisce qui. Mi rendo conto di una cosa: l’edificio dei miei affetti non ha perso solo le sue fondamenta, ma anche i piani alti. E’ stato troncato durante la sua edificazione da un violento terremoto.

Alla fine, via le fondazioni, via i piani successivi, ci sono solo io, il piano terra.

Pianto

Pianto

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Per pianto si intende comunemente l’atto di produrre e rilasciare lacrime in risposta ad un’emozione, sia essa negativa (dolore), che positiva (gioia).
Queste due componenti, lacrimazione ed emozione, possono anche non essere compresenti.
Il piangere è stato definito come “un complesso fenomeno secretomotore caratterizzato dall’effusione di lacrime da parte dell’apparato lacrimale, senza alcuna irritazione per le strutture oculari”, in cui un collegamento neuronale tra la ghiandola lacrimale e le aree del cervello è coinvolto in un’emozione dapprima controllata. Si ritiene che nessun altro essere vivente oltre l’uomo possa produrre lacrime come risposta ai diversi stati emozionali, benché ciò non sia del tutto corretto per diversi scienziati.

Le lacrime prodotte durante pianti emozionali presentano una composizione chimica diversa dagli altri tipi di lacrime: contengono infatti un quantitativo significativamente più alto di ormoni prolattina, ormoni adrenocorticotropo, leu-enkefalina[4] (un oppioide endogeno e potente anestetico), potassio e manganese.

Non ho difficoltà a raccontare di quanto vorrei piangere e quanto invece non ci riesco. Sento dentro di me il ribollire incotrollato di sensazioni, ricordi, emozioni e rabbia che non riescono a trovare la loro naturale via d’uscita e si accumulano.

Vorrei poter piangere per liberare queste energie maligne e velenose che si addensano dentro di me. Vorrei poter piangere per liberarmi dei miei rimpianti, dei miei rimorsi. Vorrei poter piangere per ritornare un po’ bambino e godere della consolazione che il pianto sempre richiamava.

Ma non mi è possibile! Tutto resta compresso e si stratifica.

Vorrei piangere così tanto da lavare con le mie lacrime i miei errori, le mie distrazioni, le mie esitazioni.
Vorrei poter piangere e poi addormentarmi e al risveglio scoprire che era tutto un incubo.
Vorrei allora poter piangere di gioia.

 

 

Boarding pass

Ultimo Viaggio

Una breve vita, ma vita da viaggiatore. Culminata con un ultimo viaggio da Poitiers a Lyon e da lì a Milano.

14 giugno 2009

Ore 17.00 circa. Ci imbarcammo su un piccolo aereo regionale che ci avrebbe portati a Lione.

C’erano solo visi tristi in quel piccolo aerporto, nonostante il misero tentativo di dissimulare la rabbia, l’impotenza, il senso di sconfitta e lo smarrimento che si erano impadroniti di noi.
Falsi arrivederci che tutti sapevamo essere addii. Ognuno di noi andava verso un destino tanto noto e tanto sconosciuto.

Nuove strade sarebbero state battute nelle settimane a venire. Nuovi limiti sarebbero stati varcati. Limiti oltre i quali non sarebbe più stato consentito ritorno.

La carta d’imbarco gli assegnava il posto 6C.

Salendo sulla piccola scaletta ci voltammo indietro a fare un ultimo saluto con la mano, con gli occhi velati dalle lacrime che non potevano e non dovevano sgorgare.

Esternazione estemporanea

La cosa più sensata sarebbe quella di interpretare gli eventi. Analizzare ciò che accade e trarne conclusioni.
Per fare questo però bisognerebbe astrarsi dalla propria vita, mettersi in disparte e osservare a distanza, prendere il tempo necessario per capire.

Ma non è possibile! L’unica cosa possibile è andare avanti, combattere, arrangiarsi magari annaspando, ma non fermarsi.
Però è necessario cercare di capire, sforzarsi, sforzarsi e sforzarsi ancora.

La cosa più sensata sarebbe valutare tutte le possibili soluzioni ai vari problemi e fare le scelte più ragionevoli.
La cosa più sensata sarebbe prendere atto delle condizioni al contorno e agire di conseguenza con la determizazione della saggezza.

Ma per mia sfortuna (o fortuna) non sono ne saggio ne ragionevole.
Fine della esternazione!

Il teatro della vita

Tutt’è da che lato si guarda lo spettacolo.
Gli spettatori vedono quello che si vuole fargli vedere attraverso la cornice del sipario. Con esso si apre la finestra su un mondo diverso in cui si svolgono fatti che non appartengono alla loro vita e che svaniranno non appena le luci si spegneranno e calerà di nuovo la tenda.
Quelli che stanno dietro le quinte vedono un’altra cosa. Il loro mondo è costituito da abiti da cambiare velocemtne, da scene fittizie dipinde su leggeri compensati, da spostare rapidamente, da corde, luci, ombre, voci, suoni. Loro vivono in quel mondo, vi appartengono e ne condividono gioie e dolori.
Infine ci sono gli attori. Gli attori vivono lo spettacolo in un modo ancora diverso. Sono dentro al mondo di cui si narrano le vicende, ne sono protagonisti. Recitano la loro parte ma non possono sapere quello che vedono gli spettatorio e neppure quello che vedono quelli che lavorano dietro le quinte. Però vedono nella platea le facce degli spettatori e guardano consa accade dietro le quinte.
Ognuno di questi tre soggetti osserva la stessa scena ma vede cose diverse.
A volte mi chiedo a quale dei tre mondi appartengo.

Considerazione catalana

Più si va avanti e meno c’è da perdere quando si è perso tutto prima, quando la tua storia finisce con te.
L’eterna speranza di sopravvivere a se stessi si frantuma come fragile cristallo. La forza vitale che ci spinge e che ci alimenta in tutte le piccole o grandi cose che facciamo si spegne lenta come la forza fisica, che viene progressivamente a mancare. La volontà, l’ardore, l’amore, la caparbietà non bastano, non servono.
Il cielo terso catalano schiarisce i pensieri. Si sente la stanchezza di una strada in salita, forse troppo.

Staremo a vedere.

Aliti di primavera scuotono il fondo

Ricordi, emozioni, passioni e dolori,
finora sedimentati sul fondo dalla pressione del freddo inverno,
si scuotono, si liberano e ribollono,
improvvisamente alimentati da fiamma imponente.

Salgono a galla e di nuovo sprofondano
in una disordinata danza verticale
nella quale vengono trascinati loro malgrado.

E le passioni si fondono ora con i ricordi,
ora con le emozioni.
E i dolori s’aggrappano alle emozioni
fino a coprirne l’intera superficie.
E i ricordi si frantumano in mille e mille piccole bolle
per poi riunirsi e frantumarsi ancora.

Formano tutt’insieme un amalgama variopinto
che sprigiona vapori densi, a tratti dolci a tratti aspri.
E questi si diffondono inarrestabili e
violano dirompenti le barriere, fino all’interno.
E accelerano il sangue nelle vene
e stordiscono, confondono e ottenebrano come
venefica droga.

(22 aprile 2012)

Mauro, Mauro e Franco

Avrei voluto essere capace di dirti qualcosa. A te, a Franco il papà di Mauro. Avrei voluto avere qualcosa da dire a me stesso.
Ma la rabbia, a me già nota da tempo, intasa i pensieri, li gonfia e poi li sparpaglia.
Ancora una volta mi sono trovato al cospetto di una bara dentro cui c’era un ragazzo: una delle tante vittime innocenti di questa iniqua guerra.
Quanto può essere influente il fatto che ancora una volta nella bara ci fosse Mauro, Mauro Di Maio? Poco, non nulla, ma poco.
Quello che davvero ha scatenato ancora una volta la mia rabbia con quella veemenza che ho tante volte sperimentato e che non ho mai domato, non è né il nome né il cognome.
Conta solo il fatto che un ragazzo che conoscevo, del quale ho seguito tutta la storia, il figlio di un amico, di un caro amico di antica data, il figlio di due splendide persone, è stato sopraffatto combattendo ad armi impari contro un nemico tanto spietato e feroce quanto cattivo e affamato di vita. Mauro come Mauro. L’elenco si allunga: Mauro come Vittorio, come Paolo, come Giuseppe, come Marika, come …
Oltre il danno, come sempre, anche la beffa: non saper cosa dire. Un abbraccio, un bacio, una carezza: cazzate!
Conta il fatto che un ragazzo che stava costruendo faticosamente la sua giovane esistenza con grandi sofferenze, con tante umiliazioni, con sforzi sovrumani, nel momento in cui si riaffaccia alla soglia della vita normale viene stroncato, travolto da uno tsunami che non lascia scampo e che porta via tra le onde assassine affetti, amori e la stessa vita.
Poiché l’ho già sperimentato, posso dire che non è solo un problema di dolore e di rabbia ma è un vero e proprio problema di fondamenta: una famiglia intera viene sconvolta dalle fondamenta. Vibra, vacilla, s’indebolisce.
E’ qui che deve venir fuori lui: Mauro. Mauro legante, Mauro cemento, Mauro pilastro.
Il peggio non è adesso caro Franco. Ora sei tramortito, sei preda di una dolore così forte che anestetizza i pensieri e i sentimenti. No, il peggio verrà. Inesorabile!
Quando ti sveglierai al mattino e impiegherai qualche secondo per renderti conto che LUI non c’è più. Quando ti renderai conto che tutte le energie della tua giornata non serviranno per LUI. Quando ti ricorderai che hai dimenticato di dirgli qualcosa. Quando ti siederai a tavola e il suo posto rimarrà vuoto. Quando qualcuno ti dirà “La vita deve andare avanti” e ti gireranno i coglioni fino a farli schizzare in aria (per favore dagli un calcio nei denti da parte mia anche). E così passeranno i mesi, gli anni.

E sarà sempre così, credimi.

Mi dispiace di non averti detto qualcosa di consolatorio, non so se lo aspettavi. Benvenuto all’inferno, dove si sopravvive.

Il tuo amico sincero.

Le strade ordinate del sabato pavese

Corre veloce il mezzo,
fendendo il traffico del sabato sera
come fosse burro grazie alla lama della sua sirena.
Le ritmiche luci blu mandano dal tetto lampi ondeggianti
sui palazzi festosi che scorrono nel finestrino.
Le luminarie natalizie si confondono, con i loro puntini colorati,
tra le gocce di pioggia, piccoli diamenti sul vetro,
formando un universo allegro e scintillante.
Disteso sul lettino giaci dolente esterrefatto,
stringi incredulo la mia mano grande.
Mi guardi ponendo mille silenziose domande
mentre insieme viaggiamo verso l’inizio della nostra storia.

Cammina lento il mezzo,
serpeggiando tra le strade ordinate del sabato pavese.
Non ha fretta d’arrivare, non chiede il passo col fragore della sirena.
La luce forte del sole estivo appiattisce le ombre e sbiadisce i colori.
Disteso sul lettino giaci stanco, immobile.
Stringo incredulo la tua mano fredda.
I tuoi occhi mi fissano tristi e non aspettano risposte.
Insieme andiamo mesti verso la fine della nostra storia.

Storia che inizia e finisce con un’ambulanza.

Il viaggio

Senza alcun dubbio il momento peggiore è il risveglio. Quando apro gli occhi e, ancora in uno stato di semicoscienza, mi accosto pigramente al finestrino e guardo fuori. Mi occorre un po’ di tempo per accorgermi che sto andando in un’altra direzione. Il treno percorre un binario sbagliato che deve aver preso per errore mentre dormivo.

E realizzo che non sto viaggiando verso la meta che avevo desiderato e che avevo scelto. La mia destinazione doveva essere da tutt’altra parte. Ci dev’essere stato un errore madornale, è ovvio che qualcosa è andato storto, molto storto. Il binario è a senso unico e quindi non c’è possibilità di ritorno.

Ed è a questo punto, tutte le mattine, che mi si raggela il sangue nelle vene. S’incrina la volta celeste, il sole si offusca e cielo diventa plumbeo. D’improvviso mi ritrovo sul torace un peso di una tonnellata che mi impedisce la respirazione. Mi sento avvolto sa una sostanza appiccicosa e puzzolente che mi impedisce i movimenti: dev’essere il mio destino.

Intanto il viaggio continua, deve continuare, anche se nella direzione sbagliata.

In fondo lo diceva Omar Kayyam: la vita è un viaggio …

La coincidenza

Per mia natura non credo a tante cose, diciamo che più o meno sono uno scettico. E soprattutto le coincidenze …

Chiarito questo, non posso che rimanere basito al cospetto di quanto sta accadendo nelle ultime settimane o meglio negli ultimi mesi. Una storia già vissuta, un film già visto. L’impressionante susseguirsi di terribili momenti che si ripetono, traslati nel tempo e nello spazio, nelle persone e nelle famiglie. Tuttavia con le stesse modalità, con lo stesso incalzare, con lo stesso carico di sofferenza.

Ancora una volta il peso maggiore tocca sopportarlo a un ragazzo: chemio, interventi, menomazioni, umiliazioni.

Tutto sembra già deciso dal destino beffardo, che prima illude e poi colpisce a tradimento. Tutto è contro di lui. Ma questa volta non posso ammettere che la storia finisca allo stesso modo. Devo sperare, devo soffrire in silenzio e aspettare la riscossa. Riscossa che sarà la mia, anzi la nostra, rivincita.

Deve vincere lui, per se e per entrambi.

Natale 2003: che coincidenza!

Pochi sanno ciò che in questi casi succede intorno a lui. Pochi sanno quanto sia difficile, così difficile che s’accosta e oltrepassa i limiti dell’impossibile. Purtroppo io sono tra quelli che sanno, e che non dimenticano. E so che non c’è aiuto che serva a qualcosa, non c’è riposo, non c’è pace, non c’è serenità; questa meno che mai. C’è solo rabbia e dolore; tanto dolore e tanta rabbia.

Il momento è critico. E’ tempo di serrare i denti e andare avanti nella tempesta. Purtroppo, almeno per me, sono passati i tempi di “dietro le nuvole c’è sempre il sole”. Non è vero. non è così! Ma proviamo con forza e tenacia ad andare alla ricerca di questo sole che si allontana sempre più.

Un grandissimo in bocca al lupo!

All the best