Si potevano osservare – e forse è possibile farlo anche oggi – un ampio ventaglio di comportamenti tra tutti i gruppi familiari che frequentavano il Day Hospital di Oncoematologia Pediatrica. Come tanti altri, io stesso ho partecipato all’arricchimento di queste tipologie, quindi penso di conoscerne abbastanza bene tutte le caratteristiche.
Il più numeroso dei gruppi era quello che includeva i bambini – e relativi genitori – che erano lì per DH programmato per controllo e terapie che necessitavano nel decorso della malattia nella fase successiva alla sommnistrazione di chemioterapici. Non era difficile riconoscerli: il pallore (per essere generosi altrimenti potrei dire il colore indefinito tra il giallo, il verde chiaro e il grigio) della pelle del viso dei bambini era il primo segno distintivo. Spesso a questo aspetto si accompagnava la presenza di un cappello (vedi Mauro) o di una sorta di fazzoletto/bandana (per le bambine) che dovevano servire per nascondere la parte superiore della testa – dove avrebbero dovuto fare bella vista di se i capelli – e dove invece, se si era fortunati, c’era un cranio perfettamente pulito e lucido, altrimenti si poteva trovare una ridicola lanetta costituita da capelli dispettosi che non avevano voluto cedere alla chemio.
Nella quasi totalità di questi casi il viso dei genitori, forse per una sorta di desiderio di condivisione, assumeva una tonalità di colore tendente a quella del proprio figlio. Facevano eccezione i genitori dei bambini che erano giunti in quel girone infernale da pochi giorni – ed erano quindi solo alla prima chemio. Il loro viso conservava ancora il colore della normalità. quello della vita “fuori”, ma inevitabilmente venivano traditi dallo sguardo: nei loro occhi si poteva leggere con chiarezza l’incredulità di essere capitati in quel posto. Questa tipoligia di frequentatori se ne stava a sedere disciplinata in rassegnata attesa delle “chiamate”, che si concretizzavano attraverso la voce gracchiante di un altoparlante. Il nome del piccolo paziente veniva infatti estratto dall’elenco formato man mano che si arrivava in DH. Appena giunti lì si doveva scrivere il nome del proprio figlio in coda alla lista, e in ordine, cronologico ma non proprio, il piccolo veniva chiamato. Le attività che venivano svolte nel DH, per cui i bambini venivano convocati tramite l’altoparlante, erano più o meno sempre le stesse. Si iniziava generalmente con il prelievo. Al prelievo erano sottoposti praticamente tutti. Chiunque passava dal DH doveva lasciare, in uno dei tre ambulatori, una decina o più di cc (centimetro cubo equivalente al millilitro, unità di misura dei liquidi nel campo medico) di sangue affinché fosse esaminato per il dosaggio dei globuli bianchi, dell’emoglobina e di tanti altri parametri. La quasi totalità dei bambini era munito di CVC (catetere venoso centrale) attraverso il quale, in modo indolore, veniva prelevato il sangue necessario per gli esami ematici. Dopo il prelievo si ritornava in sala d’attesa. Per i fortunati che erano riusciti ad accaparrarsi un posto a sedere si poteva magari continuare a leggere un libro o a giocare col telefonino, per tutti gli altri si ci poteva sempre appoggiare a un muro.
Dopo il prelievo seguiva la “visita”. Questa veniva fatta in una delle quattro o cinque stanzette. Queste erano delle vere e proprie camere d’ospedale, con tanto di letti, televisioni, prese a muro per ossigeno, eccetera e venivano adoperate per diverse funzioni. Al mattino servivano ai medici del DH per visitare i piccoli. Venivano auscultate le spalle, venivano palpati i siti di alcuni linfonodi, misurata la pressione e sempre veniva fatto il controllo della maledettissima “mucosite“, quella quale mi riservo di parlare in un’altra occasione.
Generalmente per le 10.30 del mattino o poco dopo le visite erano terminate, iniziava allora la lunga attesa del verdetto delle analisi, che raramente arrivava prima delle 12. Dall’esito delle analisi dipendeva se c’era da fare delle terepie aggiuntive. I “liquidi” per chi non mangiava tanto, una sacca di sangue per chi aveva una forte anemia, una sacca di piastrine per chi era piastrinopenico, antibiotici dai nomi improbabili per chi aveva i globuli bianchi bassi o inesistenti: ce n’era un po’ per tutti. Si potevano poi somministrare, a seconda del caso, antifungini, albumina, antivirali (il famoso “Zovirax” o “Aciclovir”), potassio e una variegata combinazione di tutti questi e altri ancora e perfino alcuni particolari tipi di chemioterapici che non necessitavano di ricovero al quarto piano.
Ritornano alle varie tipologie di persone che frequentavano il DH c’erano quelli che, essendo guariti (i loro figli ovviamente) tornavano a Pavia per il follow-up (controlli periodici post malattia), potremmo chiamarli “i sopravvissuti“.
Questi erano quasi sempre i più belli d’aspetto. Si poteva leggere sul loro viso la compassione verso i disgraziati che erano ancora nell’inferno ma anche il terrore che l’esito di qualche esame potessi farli ripiombare tra i derelitti. Evitavano di fare troppe domande alle persone che avevano conosciuto e che erano ancora lì: le risposte potevano essere terribili. Ma spesso, con un pizzico di crudeltà, venivano informati sugli ultimi decessi. In realtà “i sopravvissuti” erano lì nel DH ma non c’erano, almeno con la testa. Si sentivano, magari a giusta ragione, come chi visita un lazzaretto: tanta compassione, ma non vedevano l’ora di schizzare via come fulmini da quel posto infernale per far ritorno nel mondo normale che avevano conquistato con tanta sofferenza.
Quasi tutti “i sopravvissuti“, dopo le dimisssioni, lasciavano in gran fretta quel posto con malcelato compiacimento. Solo gli sfortunati, come fummo anche noi, venivano costretti dalla “ricaduta” a trattenersi per il conseguente ricovero. Vederli ripiombare nella condizione di ammalati (sempre riferita ai loro figli, ma come si sa se si ammala un figlio si ammala anche il genitore) strappava letteralmente il cuore. Non trovo parole adeguate a descrivere il loro aspetto, la loro espressione. Pochi possono capire cosa si prova.
C’erano infine quelli che capitavano in DH per la prima volta. Incredulità, incredulità. Non si riesce a credrere che possano esistere posti come quello. Lo spettacolo che si presenta dinanzi a loro è terrificante. Bambini senza capelli dai visi terrei, smunti sceletrici; bambini con tubi di plastica che escono dal petto collegati a una o più sacche di sangue o di sostanze dai colori più disparati (dal giallo intenso al rosso rubino e anche nero); bambini su sedia a rotelle con la pelle di colore marrone scuro tutta costellata di piaghe, e tanti altri ancora. Per non parlare dello spettacolo fornito dai genitori: una galleria di volti che esprimono dolore, sofferenza e rassegnazione.
Il solo pensiero che il loro piccolo bambino possa diventare come uno di quelli che popolano quel girone dantesco li fa sbiancare; manca loro la forza di parlare. L’unica cosa che si può leggere sui loro volti, ancora assomiglianti a quelli del mondo esterno, è: “NON È POSSIBILE!!!”
Dopo aver sperimentato tutte queste categorie e atre ancora, per esempio quella del genitore a cui è stato appena comunicato che il proprio figlio morirà a breve, sono di nuovo qui, nel mondo normale, ma la mia mente non ha mai lasciato il DH dell’Oncoematologia pediatrica al quale sono legato da ricordi indelebili.