Roulette

Ancora qui a parlare di ventitrè rosso. Passano gli anni, i mesi, le settimane e, come la ruota della roulette, siamo di nuovo allo stesso punto: al ventitrè rosso.

Un giro si vince, uno si perde, un altro si perde e uno si perde ancora. Ma così è la roulette e forse così è anche la vita.

La vita, proprio come la roulette, val la pena di essere vissuta se si gioca, e si rischia.

Poi se esce il ventitrè rosso vinci, anche parecchio, e ti emozioni, senti che sei vivo. Viceversa se non giochi non puoi vincere. Se giochi sai che puoi perdere, anzi sai che perderai quasi certamente, ma alla fine sei contento di aver giocato.

La cosa peggiore, la più deprimente, e vedere gli altri che giocano.

No! Non mi piace guardare. Mi piace giocare.

E allora si riparte con un’altra puntata.

Rien ne va plus, les jeux sont faits.

La ruota gira e la pallina è in gioco.

L’uomo dei fazzoletti

Questa mattina, come tante altre da alcuni anni a questa parte, passando sul Corso Italia davanti al cinema Armida, ho visto quel signore anziano, alto, sempre vestito con una giacca, che stava fermo all’angolo destro dello slargo del cinema.

Sono vari anni che, in estate come in inverno, col sole piuttosto che con la pioggia, col freddo o col caldo, lui sta li. Talvolta poggia le spalle al muro, come a volersi riposare, ma più frequentemente sta in piedi, con la sua postura ancora ben eretta nonostante l’età avanzata, fermo, immobile.

Immagino che si metta lì per vendere pacchetti di fazzolettini di carta, tipo kleneex tanto per capirci. Non ho però mai visto nessuna persona che li comprasse. Ma devo anche ammetere che, pur avendoli in mano, quasi esposti, proprio come se volesse venderli, non l’ho mai visto proporli a nessuno, come invece fanno i vu’cumprà nelle altre città.

Dal primo giorno che l’ho visto, ho sempre pensato che non gli importasse più di tanto vendere i fazzolettini. Più che altro mi dava, e mi da ancora, l’impressione di andare in quello slargo solo per impegnare il tempo. Mai una volta che gli sia passato proprio a pochi centimetri, che lui avesse avanzato il braccio per offrirmi la sua merce. Mai!

Sta lì, fermo. Non lo vedo mai parlare con nessuno. Trascorre la mattinata in quell’angolo e poi torna a casa. Ci sarà qualcuno ad aspettarlo? Spero tanto di si!

Mi fa tenerezza più che tristezza. A volte, quando non vado molto di fretta, penso di invitarlo a prendere il caffè al vicino Bar Rita per poi chiedergli il perché stia lì. Ma non l’ho ancora fatto. In parte penso che potrei infastidirlo o addirittura offenderlo (mi sembra una persona dotata di gran dignità), ma in parte forse non desidero davvero conoscere la sua storia. Potrebbe essere triste, potrebbe essere solo al mondo, magari vedovo, e recarsi lì solo per vedere qualcuno passare. No, non sono sicuro fino in fondo di voler conoscere la sua storia. Però mi ci sto affezionando.

Tre settimane fa, sempre di mattina perché lui il pomeriggio non c’è, sono passato e non l’ho visto. Ci sono rimasto male, speravo che non gli fosse accaduto nulla di male, che stesse in salute nonostante l’assenza. Fortunatamente il giorno successivo era ancora al suo posto. Appena ieri sono stato sul punto di avvicinarlo con una scusa e di fermarmi a parlare con lui, ma non l’ho fatto. Sò che un giorno me ne pentirò. Immagino che sia molto solo e che magari abiti con uno dei suoi figli che mal lo sopportano o che lui spontaneamente li sollevi dalla sua presenza. E così si è trovato quell’angoletto, che ormai è come se fosse suo. Probabilmente arriva a Sorrento col treno e a una certa ora se ne riparte.

Devo assolutamente trovare lo spunto per avvicinarlo. Penso che, quando passo di lì, se gli regalassi cinque minuti di conversazione lo farei felice e forse farei a me stesso un dono ben più prezioso.

Non sò se lo farò, se avrò il coraggio.

Ciao bel vecchietto dignitoso sperò di incontrarti anche domani.

Questione di voce

Con oggi sono venticinque mesi. Sembrano tanti, più di due anni. Due anni nei qualli non ho potuto toccarlo, non ho potuto vederlo, non ho potuto udire la sua voce.

Se fossero trascorsi due soli giorni non ricorderei tutto come invece faccio oggi.

Sono lì, siamo lì, insieme, io e lui. Nella casa di Pavia, nella stanza n. 23, nel Day-Hospital, a passeggio per le strade del centro. Sono lì a preparare i cocktail di farmaci da mettere nella sacca dell’alimentazione. Sono lì a pulire la colostomia, sono lì a raccontare le storielle che a lui piacciono tanto. Sono lì a giocare con lui sul divano, sono lì a massaggiargli le gambe gonfie. Sono lì a imboccarlo, sono lì a lavarlo, vestirlo, a fargli il primo bagnetto, a studiare con lui la storia e le scienze (che non gli serviranno mai). Sono lì a comprare la sua nuova bicicletta, sono lì a insegnargli a nuotare, sono lì con lui a Firenze, a Numana, a Santo Domingo, a Catania. Sono lì, sono lì, sono lì!

Altro che due anni.

Eppure, nonostante tutti i miei intatti ricordi, la mia dannazione è la voce. E’ una sofferenza bestiale non poterla più sentire.

Venticinque mesi senza la sua voce è una tortura alla quale non ero pronto a sottostare. La sua voce è per la mia mente come un alimento insostituibile per il mio corpo, come le proteine o le vitamine, senza le quali non si può vivere, così è per me la sua voce.